Caro
diarietto,
esiste,
nell’approccio all’accattonaggio, un modo di sponsorizzarsi
abbastanza usuale. È triste parlare di sponsor, quando quello che
si sponsorizza è la propria povertà, ma il principio pubblicitario
è lo stesso: catturare l’attenzione del pubblico su qualcosa e
convincerlo che dovrebbe sborsare una monetina. In genere l’accattone
fa leva sul sentimento della pietà e della compassione. Colui che
adotta una simile strategia esibisce cartelloni in cui sono enumerate
le malattie (vere o presunte) che affliggono i propri familiari,
così che il pubblico sia invogliato a gettare una moneta per la
guarigione e la salvezza dei malcapitati. Altre volte non c’è
bisogno di alcun cartellone. Taluni girano zoppiccando per strada, e
fanno di questo deficit fisico uno sponsor, altri ancora si
inginocchiano poggiando la testa sull’asfalto, come a invocare una
divinità, che in questo caso è il pubblico passante, che avvertita
la propria superiorità , getta con disprezzo la propria moneta.
Tuttavia tali strategie iniziano a non funzionare più, suscitando
nel pubblico più ribrezzo che compassione. Molti dal pubblico si
allontanano di scatto quasi per non essere contagiati dalle malattie
dei familiari degli accattoni, altri rispondono che già il mondo è
pieno di problemi, e non si può pensare ai problemi di tutti. Altri
semplicemente non li notano, in quanto a volte gli accattoni
diventano parte del paesaggio, basti pensare a quelli che si colorano
il corpo con le bombolette spray per le vie del centro di Roma.
Esiste tuttavia una donna che credo abbia rivoluzionato il modo di
pubblicizzare il proprio status, puntando solo un tantino sulla pietà
e avvalendosi invece di un metodo antichissimo per procurarsi
consensi: suscitare l’ilarità del pubblico. Questa donna
rivoluzionaria è una donna africana e la si può incontrare ogni
sabato mattina all’angolo tra piazza Fiume e via Salaria, proprio
dinanzi alla Bnl. Ella veste con dei vestiti sgargianti, indossa un
copricapo africano e somiglia a Ella Fitzgerald. È molto robusta,
forse più robusta della Fitzgerald, e si appropria di un intero
marciapiede per esibirsi, ballando e cantando. A volte il suo ballo
consiste di gesti incomprensibibili, come quello di portarsi la mano
alla gola, tanto che una volta credetti mi volesse minacciare di
morte mimando il gesto del tagliare la gola. Ciò che tuttavia
suscita l’ilarità maggiore è il suo modo di sculettare. Inizia in
una posizione eretta, poi si abbassa lentamente, tanto che sembra
stia andando in bagno, e sculetta fino a sfiorare con il sedere il
marciapiede. Ridono tutti, di un imbarazzo divertito. Ridono i
bambini, le madri dei bambini, che tentano di censurare le risa dei
propri figli ponendo una mano dinanzi alle loro bocche, salvo poi
scoppiare a ridere più forte dei propri figli. Altri ridono perché
gli altri ridono, si sa, insomma, la risata è una malattia molto
contagiosa, tanto che in quelle zone , di sabato mattina, si può
parlare di una vera e propria pandemia. La donna africana però
continua il suo ballo e il suo canto, ignara delle reazioni che
scatena attorno. I tassisti che attendono il verde al semaforo,
spesso suonano il clacson e le fanno cenno di andare a ritirare la
moneta desiderata. Lei scatta e raccoglie la moneta quotidiana,
sempre sculettando e benedicendo loro e Dio, che Dio li benedica.
Non ho mai visto una donna sculettare e benedire Dio nello stesso
tempo. Quando è stanca la donna si ritira nella propria postazione.
Un ombrello colorato fatto di stracci. Si siede su una specie di
sedia ricavata da qualche rottame. Lì mangia del riso in una
scodella, e beve acqua in abbondanza, per ripristinare l’equilibrio
idrico scompensato dal ballo sfrenato. Nelle giornate troppo calde
balla e canta seduta. Utilizza il bordo della sedia a mo' di
percussione. In quei momenti muove la testa come un’ossessa, come
in preda a una visione mistica , quasi a volersi rifare per
l’impossibilità di muovere il proprio sedere in quella posizione.
Quando una “zingara” invidiosa le si avvicina per maledirla, la
donna africana la scaccia via e riprende il suo ballo come se nulla
fosse, come se l’ira facesse parte di un breve interludio nell’atto
eterno del suo ballo. Si è consolidata in molti l’idea che “quella
povera donna”sia meritevole di una certa stima, che “non si sta
mica a piangere su, prende la vita come le viene” “Canta che ti
passa!” aveva urlato un giorno un vecchietto burlone alla donna.
Non ho ancora menzionato la scritta impressa sul cartellone della
donna, che è questa: Buongiorno, sono felice ma povera. Aiutatemi,
grazie.
La rivoluzione
pubblicitaria messa in atto da questa donna africana consiste
esattamente in questo: menzionare la felicità, anziché una qualche
sciagura.
Oggi
tuttavia vi era una modifica singolare, nonché comica, sul
cartellone. Vi era una cancellatura. Uno spazio bianco, esattamente
lo spazio in cui prima vi era la scritta: ma povera. Per cui il
cartellone modificato recita così: buongiorno sono felice. Aiutatemi,
grazie.
Che
si sia arricchita improvvisamente (ne dubito), che abbia voluto
eliminare l’ultimo residuo di tristezza (la sua effettiva povertà)
per raccogliere ulteriori consensi, in ogni caso non riesco a
intendere perché abbia cancellato quell’accenno alla povertà .
Tuttavia l’effetto è comico per chi leggesse il cartellone per la
prima volta, senza conoscerne i precedenti: buongiorno sono felice.
Aiutatemi. Come se la felicità fosse qualcosa da cui trarsi in
salvo. Aiutatemi perché sono felice. Fatto sta che la gente continua
a salutarla, a sorridere, a ridere, a stringerle la mano, a
chiacchierare con lei. E infine, a darle l’ambita monetina.
Cristina
Rubino